Europa: la valutazione delle misure per prevenire il rischio stress

Europa: la valutazione delle misure per prevenire il rischio stress

Sono passati circa 13 anni da quando è stato siglato l’ Accordo quadro sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004, un accordo che ha fatto fare diversi passi avanti alle legislazioni europee in merito al riconoscimento della rilevanza del rischio stress negli ambienti di lavoro e della necessità di specifiche misure di prevenzione.

Ma cosa è cambiato in materia di prevenzione del rischio stress lavoro-correlato in Europea in questi 13 anni?

Il Progetto REST@Work – Reducing stress at work che, finanziato dall’Unione Europea e sviluppato in Italia dall’ Unione Italiana del Lavoro ( UIL), ha permesso, tramite specifiche indagini, di raccogliere preziose informazioni sulle misure, disposizioni e politiche attuate in merito allo stress lavoro-correlato negli otto paesi che partecipano al progetto: Francia, Grecia, Italia, Lituania, Portogallo, Romania, Spagna, Ungheria.

Informazioni che sono state raccolte nel documento “REST@Work – REducing STress at Work. Stress lavoro correlato: un rischio da gestire insieme”, a cura di Christian Nardella, Feliciano Iudicone, Silvia Sansonetti (Fondazione Giacomo Brodolini), Fulvio D’Orsi (ITAL-UIL) e Gabriella Galli (UIL).

Riguardo al monitoraggio e ala valutazione delle misure volte a prevenire o combattere lo stress lavoro-correlato, il documento segnala che, a livello nazionale, generalmente ci sono pochi dati sull’efficacia delle misure volte a prevenire o affrontare questo rischio. Generalmente i dati che si possono avere derivano da indagini “volte ad analizzare la percezione dei lavoratori in merito al loro luogo di lavoro e l’auto-valutazione del loro benessere sul lavoro”. Altre informazioni possono essere invece “desunte dalle ispezioni e dal numero di aziende che non rispettano le misure di prevenzione.

Ma vi sono anche paesi, come Francia, Lituania, Romania, Ungheria e Grecia, in cui sono quasi assenti le informazioni riguardo all’efficacia delle misure per ridurre il rischio stress lavoro-correlato.

Partiamo dall’Italia.

Il documento segnala che in Italia, nel periodo 2014-2016, l’Inail, le Regioni e le Aziende Sanitarie Locali hanno sviluppato un “piano di monitoraggio e valutazione che comprende 800 aziende, tra cui 549 piccole e medie imprese di 15 regioni italiane”. I risultati hanno indicato che “la maggior parte delle aziende valuta formalmente il rischio stress lavoro-correlato”. E la valutazione preliminare (svolta utilizzando una checklist per misurare gli eventi sentinella ed i rischi relativi alla natura del lavoro) ha spesso rilevato l’assenza del rischio (85%), cosa che “è più frequente tra le imprese che non riescono a differenziare la valutazione in base ai fattori rilevanti che influenzano l’esposizione dei lavoratori al rischio, quali compiti e mansioni, contratto di lavoro o luogo di lavoro”.

Inoltre sia la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) e l’Unione Italiana del Lavoro (UIL) hanno recentemente condotto ulteriori studi sul tema tramite interviste ai rappresentanti in materia di salute e sicurezza.

Ad esempio lo studio CGIL (Di Nunzio et al. 2015), che riguarda solo il settore metallurgico, indica che “un’impresa su tre non ha effettuato alcuna valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Quelle che formalmente lo hanno fatto raramente segnalano la presenza di tale rischio o la necessità di migliorare le misure volte a combattere lo stress. Le valutazioni sono effettuate principalmente da consulenti esterni, mentre i rappresentanti in tema di salute e sicurezza hanno un ruolo al riguardo solo nel 39% dei casi”.

Mentre la ricerca effettuata dalla UIL (Galli 2014) ha “esaminato una vasta gamma di settori economici e ha compreso una quota del 16% d’intervistati di piccole imprese. I risultati hanno confermato che i rappresentanti in tema di salute e sicurezza vengono raramente coinvolti nella valutazione dello stress lavoro-correlato (30%), in violazione delle disposizioni di legge. Le aziende tendono ad eludere anche l’obbligo di effettuare periodicamente e regolarmente corsi di formazione loro rivolti”. Inoltre “se, da un lato, il coinvolgimento dei lavoratori nella valutazione dello stress lavoro-correlato è segnalato solo dal 39% degli intervistati, dall’altro, una percentuale minore di aziende cerca di utilizzare la valutazione stessa come modo per accrescere e diffondere la consapevolezza sulla necessità di prevenire i rischi, tramite la definizione di misure e obiettivi insieme ai lavoratori”.

Ci soffermiamo ora sul Portogallo.

In assenza di valutazioni ufficiali, alcune valutazioni parziali possono essere “desunte da due rilevanti pubblicazioni accademiche”:

“Correia et al. (2010) hanno effettuato uno studio su un campione di 94 insegnanti di scuola primaria del distretto di Braga, riscontrando come fattori di stress la presenza d’instabilità di carriera, lunghi orari di lavoro ed il fatto di avere studenti più grandi. Il 45% degli insegnanti intervistati ha riferito di trovare la propria occupazione molto stressante e il 10,6% ha mostrato segni di burnout. L’analisi non ha rilevato significative differenze di genere”;
“Rui Gomes et al. (2009) hanno effettuato uno studio sugli infermieri portoghesi, concentrandosi sullo stress lavoro-correlato degli infermieri in 286 ospedali e centri sanitari. Sono state analizzate le fonti di stress, il burnout, i problemi di salute fisica, la soddisfazione, la realizzazione e l’appagamento professionale. I risultati comparati mostrano che il 30% degli infermieri è sottoposto ad una notevole quantità di stress ed il 15% mostra segni di esaurimento emotivo. Le analisi di regressione multipla mostrano una maggiore capacità di prevedere gli aspetti di stress nell’esaurimento emotivo, nella salute fisica, nella soddisfazione, nella realizzazione e nell’appagamento professionale. Le analisi comparate mostrano maggiori problemi di stress e reazioni più negative sul lavoro nel caso delle donne, degli infermieri più giovani e meno esperti, dei lavoratori con contratto a tempo determinato, nonché dei lavoratori che effettuano turni e straordinari”.

Concludiamo con qualche dato sulla Spagna.

In Spagna l’Istituto Nazionale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (INSHT) ha effettuato “uno studio nazionale sulle condizioni di lavoro, che tenta di quantificare la percentuale di lavoratori preoccupati per i vari aspetti relativi alle condizioni di lavoro”. E il confronto tra i risultati del 2012 con quelli del 2007 ha messo in evidenza “i cambiamenti per quanto riguarda una maggiore preoccupazione dei lavoratori per la propria salute, i rapporti con i colleghi e con i superiori e, soprattutto, il rischio di perdere il lavoro. Questa preoccupazione per l’instabilità del lavoro è più elevata tra i lavoratori molto giovani, i lavoratori stranieri, quelli con contratto a tempo determinato, i lavoratori che non hanno completato il ciclo d’istruzione primaria ed i lavoratori nel settore edile e dei trasporti”.

Riportiamo, infine, alcuni studi sulla percezione dei rischi sanitari e psicosociali che è stata esaminata nel 2013 dall’Osservatorio sui rischi psicosociali dell’Unione Generale del Lavoro spagnola (UGT) su un campione intersettoriale.

Queste le conclusioni principali della ricerca:

“l’85,8% dei lavoratori intervistati ritiene che non vi siano rischi psicosociali nel proprio posto di lavoro;
il 73,5% dei lavoratori ha dichiarato che la valutazione del rischio è stata effettuata nella loro impresa, ma la percentuale di valutazioni che include rischi psicologici è solo del 39,2%. Queste percentuali sono più elevate nelle imprese che hanno Comitati in tema di salute e sicurezza e delegati in materia di prevenzione;
per quanto riguarda la valutazione dell’esposizione ai fattori di rischio psicosociali, lo ‘sviluppo personale’ è l’aspetto più colpito in tutti i settori di attività;
per quanto attiene al processo di controllo delle richieste alle quali i lavoratori sono sottoposti, quale indicatore dello stress lavoro-correlato, i peggiori risultati si registrano nei settori della sanità e dell’istruzione;
i posti di lavoro che forniscono un sostegno diretto alle persone sono quelli con i peggiori indicatori di rischio stress, soprattutto nel caso dei lavoratori con minore anzianità di lavoro, con la giornata frazionata in turni e di coloro il cui lavoro richiede una disponibilità al di fuori del normale orario di lavoro;
con riferimento alla percezione dello stato di salute ed alla sua relazione con i rischi psicosociali, le lavoratrici hanno una peggiore salute mentale rispetto ai lavoratori di sesso maschile, con differenze significative;
una peggiore salute mentale è segnalata tra i lavoratori sottoposti a forti richieste e con uno scarso controllo su di esse, con un elevato carico emotivo, con il lavoro articolato in turni, che lavorano nel fine settimana e durante le vacanze, con un più alto rischio di molestie e violenza interna o esterna;
un lavoratore su tre attribuisce la propria condizione muscolo-scheletrica all’esposizione ai rischi psicosociali;
le psicopatologie sono più comuni tra le lavoratrici del settore dei servizi”.
In definitiva lo studio giunge alla conclusione che “affrontare lo stress lavoro-correlato sia una priorità non soltanto in ragione dei requisiti giuridici e di legge, ma anche in quanto esso rimarrà un problema pressante che i lavoratori dovranno affrontare”. E viene richiesto che le ‘malattie mentali lavoro-correlate’ siano inserite nell’elenco delle malattie professionali.

Concludiamo ricordando che il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, si sofferma, riguardo agli otto paesi che partecipano al progetto, anche sulle differenze relative a normativa in materia di stress lavoro-correlato, applicazione dell’Accordo, diritti di rappresentanza, coinvolgimento dei lavoratori, sistema sanzionatorio, strumenti nazionali, ruolo delle parti sociali.

 

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